18 maggio 2024

Il divisivo stemma cittadino di Fiume-Rijeka

L'aquila bicipite che guarda a sinistra fu concessa dall'imperatore austriaco Leopoldo I nel 1659. Era una variante di quella asburgica (dove le due teste guardano in direzioni opposte).
L'attuale versione del simbolo cittadino è stata montata sulla torre civica nel 2017, priva di corona ma con il motto "indeficienter" nel piedestallo. E' l'ultima tappa di una lunga vicenda trascinatasi attraverso i secoli e i regimi, ben oltre la dominazione asburgica (che va dal XVI secolo al 1918).
L'originaria aquila bicipite leopoldina aveva due teste, era
cioè austro-ungarica: nè austriaca nè ungherese, con le due
teste che guardavano nella medesima direzione.
Essendo il primo di una lunga serie mi sembra che lo stemma a due teste dovrebbe essere considerato l'originale. La sua esistenza, comunque, era destinata fin dall'inizio ad essere travagliata.
Con il regno di Maria Teresa la bicefala venne sostituita dall'aquila ad una sola testa (e perciò ungherese) fatto che si spiega con l'accresciuta influenza magiara nell'impero austroungarico e nella città quarnerina.
L'aquila "teresiana" con una sola testa venne posta sulla torre civica intorno al 1754 e vi rimase per ben 136 anni fino al 1890 quando, con la scusa di importanti restauri, venne rimossa e conservata nel museo civico.


Cartolina ricordo dell'aquila donata dalle donne fiumane
nel 1906 e collocata sulla cupola della Torre Civica. Opera
dello scultore Vittorio de Marco, fu fusa dal fonditore Gio-
vanni Legan nello stabilimento "Matteo Skull" era alta 2,20
metri, larga metri 3,00 e pesava ben 2 tonnellate.
Nell'aprile del 1906 un comitato di signore fiumane, raccolto l'obolo fra le donne di Fiume, offriva al Municipio una nuova aquila che venne posta sulla torre civica il 15 giugno, ed era un'aquila a due teste. Dal modello in legno dello scultore Vittorio Demarco la fonderia di Matteo Skull ricavò una fusione in lega di alluminio e zinco.
Ma lo stemma della città era destinato ad una esistenza travagliata e mutevole.
►  Con l'arrivo del "comandante" d'Annunzio tutto ciò che sa di nazionalità si incendia e inviperisce. Guglielmo Barbieri e Alberto Tappari sono i due tenenti degli Arditi che il 4 novembre del 1919 (durante l'occupazione dannunziana) privarono l'aquila fiumana di una delle due teste. Lo fecero in un accesso nazionalista italico, in polemica con tutto quanto c'era di asburgico e di croato in città. L’intervento congiunto di Host-Venturi, di Iti Baccich e della signora Kucich (anch'essi dannunziani) ottenne, in caso di rimozione, di poter conservare il monumento nel Civico Museo. Le lungaggini burocratiche, fors'anche la voglia inespressa della maggioranza di lasciarla anche così com'era, per non uccidere la propria storia, poi la guerra, le bombe, la sconfitta, i tedeschi, la resistenza e gli jugoslavi alle porte, distrassero l’attenzione di tutti da quell'emblema sfregiato comunque rimase sulla torre civica fino al 1949.

Stemma ufficiale durante il Regno d'Italia. Vedi anche
il post del gruppo FB "istriadalmaziacards".
 Dal brutto episodio squadrista del 1919 nasce l'equivoco che l'aquila a una testa rappresenti meglio l'italianità, mentre quella bicipite sarebbe solo simbolo degli autonomisti se non degli austriacanti. Tutt'ora il cosiddetto Libero Comune di Fiume in Esilio utilizza l'aquila a una testa come proprio emblema, così come spesso avviene negli ambienti legati agli esuli.
Nel 1921, la Costituente dell'effimero ma legittimo Stato Libero di Fiume ripristinava l'uso del vecchio stemma leopoldino a due teste privandolo però della corona imperiale. Lo fece timidamente, senza imporlo agli uffici che erano già stati provvisti durante la burrascosa parentesi dannunziana dello stemma "italiano" con l'aquila ad una testa. La città ebbe poi il suo definitivo stemma "italico" solo nel 1924, dopo l'annessione ufficiale al Regno d'Italia. Uno studio araldico di Firenze presentò il disegno che venne accettato dalla amministrazione comunale: un'aquila prettamente romana con 1a fonte "inesauribile" e la scritta "indeficienter"

9 maggio 2024

Il rustico frico, formaggio fritto dei monti friulani

Formaggio, patate e cipolla. Un piatto unico che viene dalle malghe e che si fa friggendolo in padella nel burro o nello strutto di maiale.
Formaggio, patate e cipolla: sono i tre ingredienti del frico friulano, il pastone alpino dei malgari friulani.
Frico: praticamente un pastone patate, formaggio e zivola.
Si tratta di un piatto del riciclo o del recupero che recuperava gli avanzi.
👉La sua preparazione prevedeva il recupero degli strissulis, i ritagli di formaggio che avanzavano dopo la realizzazione delle forme.
Probabilmente di origine carnica, rappresentava, accompagnato con la polenta, il pasto di boscaioli e contadini durante il lavoro.
Accompagnato dalla polenta gialla e nera.
Oggi viene realizzato di solito col formaggio Montasio in due versioni: quello friabile e quello morbido, entrambe di solito vengono portate in tavola con la polenta.
👉Il frico friabile o croccante è molto sottile e oggi è fatto di solo formaggio (generalmente Montasio) che viene fritto nel burro o addirittura nel lardo, per renderlo più croccante. Oggi si usa invece friggerlo nell'olio bollente.
👉Il frico morbido si prepara con formaggi di diversa stagionatura, e si presenta come una grossa frittata.

Come farlo in casa: 1 cipolla, 1 etto di burro, 1 etto di formaggio stravecchio, 1 etto di formaggio magro, sale e pepe. Mettere in una padella il burro e la cipolla tagliata a fette sottili, rosolare mescolando di continuo per non fare colorare la cipolla; quando è morbida aggiungere il formaggio in precedenza tagliato a fette sottili, un pizzico di sale e di pepe. Cuocere lentamente fino a quando il formaggio si scioglie, a questo punto voltare la frittata e cuocere bene anche l'altro lato, quando è cotto metterlo su un piatto ricoperto di carta assorbente e in seguito servire.

3 maggio 2024

La complicata storia del magico tram di Opicina

Aperta nel 1902, la tramvia Trieste-Opicina collegava il centro-città con le ville della buona società triestina. Nel 1906 fu prolungata fino alla stazione "Opicina", dove fermava la importante Ferrovia Transalpina.
Una fotografia del tram "vecchio", quello a cremagliera che terminava a Vetta Scorcola, dove anche oggi termina la trazione a funicolare e carro-spinta. Purtroppo oggi è fermo dal 2016, paralizzato dalle chiacchiere e dalle burocrazie incrociate dopo un mini-deragliamento che in qualsiasi altra città avrebbero risolto in fretta.

Nel 1906 la tramvia venne allungata fino alla stazione "Opicina" della im-
portante Ferrovia Transalpina, che vediamo a sinistra di fronte all'alber-
go Hotel Gromzy. Ma nel 1936 la tratta compresa fra la stazione e l'attua-
le rimessa fu soppressa. La foto è del 1920.
Mappa tratta da Wikipedia. In rosso la tratta attuale. In bianco quella che
fu chiusa nel 1936. Il tratto inaugurato nel 1902 si limitava a servire le re-
sidenze della ricca borghesia fra Piazza Oberdan e Vetta Scorcola.
Nel 1902 fu inaugurato il famoso tram di Opicina che in questa sua prima versione si limitava a salire dal centro città fino a Vetta Scorcola (a metà del tragitto odierno). Si trattava di una salita ripida con un tratto di 800 metri vinti con la trazione a ruota dentata "a cremagliera". Fino al 1928 la linea a cremagliera del tram di Opicina è stata una linea gemella del trenino del Renon, che venne realizzato a Bolzano quattro anni dopo, nel 1907 e che collegava la centrale Piazza Walter con il paese alpino di Collalbo, situato negli immediati dintorni di Bolzano.
👉Successivamente (1906) il tram fu prolungato fino alla stazione ferroviaria di Opicina, per far arrivare direttamente i passeggeri da Trieste fino alla stazione dove fermavano due importanti linee internazionali: la Transalpina (Vienna-Trieste) e la Ferrovia Meridionale (sempre Vienna-Trieste, ma con percorso diverso).
👉La seconda breve tratta fino alla stazione è stata soppressa nel 1936 per scarsità dei passeggeri e per altri motivi tecnici; da allora il capolinea del tram è all'attuale  rimessa.
👉Oggi il tragitto è lungo circa 5 km, con un dislivello di 329 metri e con una pendenza massima del 26%.

18 aprile 2024

La "spaleta in crosta" fatta nella cucina di casa

E' una variante del prosciutto in crosta de pan triestino, fatta in casa con la zampa davanti del maiale. E Luisa Blandini ci spiega come fare.
Spaleta in crosta. "Eco ancora una foto che go prega mio nipote che me fotografi. Spaleta in crosta." La spalla è la zampa anteriore del maiale, dallo zampetto fino all'articolazione della spalla. In pratica, è l'equivalente del prosciutto, ma della zampa anteriore. (foto e testi verdi sono di Luisa Blandini).
Spaleta in crosta de pan. Nota: "lavrano" è il nome dialettale
del lauro. Da cui viene il croato Lovran per Laurana.

La spalletta di maiale affumicata fa parte della tradizione locale e inevitabilmente rimanda al "prosciutto in crosta de pan" alla triestina che di solito viene fatto con il "cotto di Praga", che è affumicato.
Tornando alla spaleta, ecco i consigli per farla come si deve: "Questa era affumicata la go cusina quanti chili che la ga tante ore con le verdure che va in brodo più lavrano rosmarin e timo, poi la go lasa' che la se rafredi go fato el paston del pan x due chili de spaleta go fato de un chilo de farina, go steso col mattarel go meso su la spaleta spenelada con ovo e un po de senape involtisa che sia tuta coperta col paston. Messo nella staniola e rosti un mezz'oretta poi go apri la staniola e lassa' che El pan prendi color."

5 aprile 2024

Il morbido kajmak, che arrivò nei Balcani al seguito dei popoli nomadi dell'Asia centrale

Le origini del bianco kajmak di Serbia si perdono nella remota Asia, tanto che Lev Tolstoj cita il kajmak in un racconto ambientato fra i Cosacchi del confine militare zarista lungo il fiume Tèrek, nel Caucaso.
Del tutto sconosciuto da noi, il kajmak è una bianca crema di latte cagliato che assomiglia al formaggio tenero, una via di mezzo fra il quark e il burro. E' piuttosto "ricottoso", cremoso, granuloso e molto, molto grasso (fino al 60% di grassi). Anche lui è stato addomesticato dall'agro-industria, ed eccolo qui, nell'angolo del barbecue di casa. Si ottiene per fermentazione acida del latte (cosa che avviene, seppur in modalità diversa anche per il Graukäse tirolese).

Il bianco kajmak in tavola con i suoi compagni di elezione: la rossa salsa
ajvar, la cipolla bianca, i verdi cetriolini in agrodolce, la pljeskavica di
carne e la 
pita balcanica, l'onnipresente pane tondo che va con tutto.


Una ciotola di kajmak spolverato di pepe nero macinato Nel cortile di ca-
sa mia assieme a pane di segale e salsiccia secca slovena (suha klobasa).
"Ben presto la ragazza e la vecchia escono dalla stalla e si avviano verso l’izbuška(*) portando entrambe due grossi recipienti pieni di latte, frutto della mungitura di quel giorno. Dal camino d’argilla dell’izbuška si leva poco dopo il fumo del kizjak(**), giacché bisogna cuocere il latte per farne del kajmak." (*) I cosacchi chiamano così («piccola capanna») la bassa e fresca rimessa dove si conservano e si fanno fermentare i prodotti del latte; (**) Il Kizjak è un combustibile ricavato dallo sterco animale essiccato. Diffuso nelle regioni con clima secco, preparato mescolando lo sterco con paglia ed essiccato al sole. (Lev Tolstòj, "I Cosacchi", Mondadori. Edizione del Kindle.
Quando non esistevano ancora i frigoriferi, il kajmak era un modo per conservare parte delle grandi quantità di latte prodotte dai contadini. La lenta ebollizione del latte di vacca veniva seguita dalla scrematura e fermentazione della panna, che proseguiva per un paio di giorni. Accompagna i piatti di carne, i salumi e altri

21 marzo 2024

La nave "Galeb", il gabbiano ambasciatore di Tito

E' stata la nave di rappresentanza del presidente jugoslavo Tito. Fino alla sua morte (nel 1980) effettuò 549 giorni di crociera, viaggiò per 86.062 miglia toccando 18 stati in tre continenti: Europa, Asia e Africa e ospitò ben 102 tra capi di stato e di governo.
Il Galeb nel 2023, nella la fase terminale dei lavori di restauro nel porto di Kraljevica, all'ingresso della Baia di Buccari. Per singolare coincidenza, il giovane attivista comunista Josip Broz "Tito" aveva lavorato nei cantieri navali di Kraljevica/Porto Re nel 1926, dove guidò uno sciopero e scrisse il suo primo articolo, che fu pubblicato nel giornale “Operai Organizzati”. I datori di lavoro volevano sbarazzarsi di lui e in ottobre lo licenziarono.
galeb
Il "Brod Mira Galeb" (Nave della Pace Gabbiano) era la residenza marit-
tima del Maresciallo Josip Broz Tito dal 1953 al 1979. Qui è ormeggia-
ta nel porto di Fiume nel 2017, in attesa del suo restauro, che é in corso.
C'é stata un'epoca in cui questo grande yacht divenne un simbolo per i popoli della ex-Jugoslavija e per le molte nazioni del movimento dei paesi non-allineati.
Tito e Churchill sul Galeb. Di spalle Jovamka, la moglie di Tito. Il leader
dei paesi "non allineati"vi ospitò i principali capi politici mondiali.
👉Il "Gabbiano" debutta nel 1953 quando risale il Tamigi per portare Tito all’incontro con il primo ministro inglese Winston Churchill, in quella che fu la prima visita di un capo di stato comunista nel Regno Unito. Poi, nel 1954 in visita in Turchia e in Grecia. Successivamente in India e Birmania sulla rotta dei Non Allineati. E poi ancora Port Said, Aden, Bombay, Vizagapatam, Calcutta, Rangoon, Madras, Cochin e ancora Port Said...
Dopo la morte di Tito, la nave effettuò il suo ultimo viaggio di stato nel 1989.
Tra gli ospiti del Galeb figurano il Presidente degli USA Kennedy, la Regina Elisabetta di Inghilterra, i leader cubani Fidel Castro e Ernesto Che Guevara, Paolo e Federica di Grecia, l’Imperatore d’Etiopia Haile Selassie, Re Hassan II del Marocco, il presidente egiziano Nasser, il libico Mu'ammar Gheddafi, i Primi Ministro indiano Nehru e Indira Gandhi, il Presidente dell’Indonesia Sukarno, il Presidente del Ghana Nkrumah, il Presidente della Tunisia Bourguiba, Sirimavo Bandaranaike di Ceylon (prima donna al mondo ad essere Primo Ministro), il Premier della Birmania U Nu, il Presidente della Guinea Sékou Touré, l’Arcivescovo di Cipro Makarios e molti fra i leader dell'Est: il romeno Nicolae Ceaușescu, i sovietici Leonid Brežnev e Nikita Kruščëv.

La lunga e complicata storia del Galeb di Tito.
Era stata varata a Genova nel 1938 col nome di "RAMB III" (Regia Azienda Monopoli Banane) destinata al trasporto veloce delle banane prodotte nella Somalia italiana.

3 marzo 2024

Le "cucize" di Cherso raccontate da chi c'era

La cuciza (kućica) è una piccola costruzione rurale in sassi usata come ricovero temporaneo. Più modesta del kažun dell'Istria del Sud-Ovest.
La cuciza dei borghi isolani è sempre povera, piccola, modesta, precaria, provvisoria. Era inserita in una economia agricola di sussistenza dove gli uomini e gli animali avevano bisogno l'uno all'altro.


Foto di Annamaria Zennaro Marsi. Come si vede non tutte le costruzioni
di servizio ai campi erano a pianta circolare e ben strutturate, come le fa-
mose casite istriane. Specialmente sulle isole erano molto più povere.
Può fungere da rifugio di fortuna anche per l’uomo, come avviene per lo stavolo della Carnia e del Cadore (dal latino stabŭlum).
E' una versione minore, più povera e precaria, della istriana casita (kazun in croato).
Una cuciza chersolina nei pressi di Vidovici (isola di Cherso, 2018). Qui
vediamo anche una doppia lessa che separava i due diversi spazi interni
destinati ad usi e animali diversi.
👉In un racconto di Annamaria Zennaro Marsi si coglie bene l'uso che ne veniva fatto in una economia agricola di sussistenza come quella dei piccoli contadini isolani. L'autrice coglie bene anche la differenza fra la cuciza agreste e il kazun contadino circolare istriano, che, stupita, descrive così: "...una specie di trullo circolare, con un buco al centro per far penetrare la luce, un’opera d’arte unica nel suo genere nelle campagne chersine".
La natura della cuciza di Cherso è riassunta in una frase: "...se non fosse stato per quella grande bocca spalancata che ne determinava l’apertura, si sarebbe potuta amalgamare e confondere con le masiere." Ma ecco tutto il